Caffè del Perdono – Farm Cultural Park

Farm Cultural Park

Ethiopia is not a country for atheists. Nevertheless the main social gathering places are not the countless churches and mosques. Actually, coffee bars are the preferred spots to talk about business and projects, or to whisper of love and politics. Unhurried. No one comes in, drinks its macchiato and runs off. It’s not just having a coffee-break, but carrying out a ritual slowly, with passion and intensity.

In Addis Ababa the favorite place for coffee lovers is Tomoca (Torrefazione Moderna Cafè), the most ancient coffee store in Ethiopia, established in 1953 by an Italian family. A small wood-decorated shop, always crowded, selling all main Arabic coffee types grown in Ethiopia. Tomoca’s packages – that still carry the Italian caption “una moderna installazione per il più antico caffè” – are one of the favorite souvenirs for visitors.

For those who wish to dive into Addis inhabitants’ world the best place to go probably is “Tea Room”, an old coffee shop in the popular neighborhood of Piassa, right in the city heart, where many movies and Ethiojazz old stars use to hang out. I sit at the table with four elegantly dressed elderly Ethiopian men sipping their coffees. Thanks to Antonio’s help – a sixty years old man born in Ethiopia from Italian parents immigrated from Sicily at the time of Graziani – I ask them some questions about their relationship with Italians. “Why should we hold a grudge against you?! – one of them answers to me with a laugh – Our fathers indeed fought your grandfather, but we have built the Country you see now also thanks to the help of many Italian people like Antonio, who decided to stay here even after Fascists were sent away. You are a son of that generation and therefore will always be welcome in Ethiopia”. Maybe it’s a hint of emotion he see passing in my gaze that move the waiter to serve me. While savoring the delicious macchiato, it comes to my mind that something of the history I just heard can be found in this beverage: the ancient fragrance of Ethiopian coffee extracted by machines made in Italy – in some cases extraordinary museum pieces – to be found almost in every bar of Addis Ababa. A bond which leaves in my mouth a taste of reconciliation.

courtesy of Alessia Gammarota http://www.alessiagammarota.com/

Whereas coffee history protagonists are pastors. Shepherds and clergymen. According to one legend Kaldi, a young man from the Ethiopian region of Kaffa, was the first man to taste a coffee bean: the sudden liveliness of his goats after eating those fruits aroused his curiosity and he decided to try himself. In a euphoric state, Kaldi took the beans to the nearest monastery. The custom of chewing beans during the prayer nights caught on with the monks all through Ethiopia. For a long time people went on eating coffee beans, either whole or crumbled blended with boiled butter, rather than drinking – a practice still in use in the most remote places of Kaffa and Sidamo regions.

Origin of coffee is also claimed by Yemen. Another legend sets Kaldi beyond the Red Sea, where he is said to have disclosed his discovery to the Imam of Chehodet monastery. The Maronite monk Antonio Fausto Nairone, theologian of the Sorbonne who lived in the Seventeenth century, reports coffee was a gift to Muhammad from Allah, who sent Archangel Gabriel taking “a strong and dark beverage capable of giving strength so as to unsaddle 40 horsemen and satisfy as many virgins in just one day”. However the legends, since the Sixtieth century coffee was widespread throughout the Arabian world on both Red Sea shores and considered a God’ gift which has the power of arousing the mind and the spirit. In the early 1600s from Venice’ harbor coffee beans reached most European countries. At the beginning of Eighteenth century in England there were already thousands of coffee-houses frequented by academics, philosophers and politicians who gave birth to the age of Enlightenment.

sacchi-caffe-etiope

Today all Addis Ababa homes have a low table on which is arranged a set of small haftless coffee cups, called sini, and a dark clay pitcher with a narrow neck, called jebena, the very first coffee maker in history. Every day housewives lay before the table a carpet of fresh-cut herbs, the guzguaz. Coffee beans are first roasted in a concave bowl until they reach the desired roast degree. Prior to crashing them in the mortar, the woman spreads the smoking fragrance with delicate gestures of her hands. The jebena full of boiling water stands on a small brazier, ready to receive the coffee powder. The beverage can be served adding sugar and a rue sprig, but also butter and salt or even garlic, depending on the hosts’ provenance. The first turn (abol) is for elder people. The second and third (tona and baraka), after more water is added thus making the coffee beverage less strong, is for younger people. Every turn is accompanied by cholo, a mix of roasted corn, barley and wheat with dry peanuts and chickpeas.

This ceremony can last hours and it’s an occasion for people to discuss with the loved ones, tackling problems and making plans for the future. An ancient but always alive practice which turns coffee drinking into a liturgical instrument.

courtesy of Alessia Gammarora http://www.alessiagammarota.com/

L’Etiopia non è un Paese per atei. Eppure le innumerevoli chiese e moschee non sono il principale centro di aggregazione della società. È nelle caffetterie che si discute d’affari e nuovi progetti, si sussurra d’amore e di politica. Senza fretta. Nessuno entra, ingolla il suo macchiato e scappa via di corsa. Quella del caffè non è una pausa, ma un rito da consumare con passione, intensità e la giusta lentezza.

Ad Addis Abeba, il tempio d’eccellenza per gli amanti del caffè rimane la storica “Torrefazione Moderna Café (Tomoca)”, la più antica dell’Etiopia, fondata nel 1953 da una famiglia italiana. Un piccolo spaccio decorato in legno, sempre affollato, che offre tutte le principali varietà di arabica coltivate in Etiopia. Le confezioni – su cui è rimasta la storica dicitura in italiano “una moderna installazione per il più antico caffè” – sono tra i souvenir più gettonati da chi è in visita nella capitale.

Per chi vuole provare a immergersi ancora più a fondo tra gli abebini, il posto migliore è forse “Tea Room”, antica caffetteria di Piassa, quartiere popolare e cuore della città, molto frequentata anche dalle vecchie glorie del cinema e dell’Ethiojazz. Condivido il tavolino con quattro anziani signori etiopi, che sorseggiano caffè avvolti nell’eleganza dei loro abiti migliori. Grazie all’aiuto di Antonio – un sessantenne nato e cresciuto in Etiopia da immigrati siciliani arrivati qui al tempo di Graziani – riesco a fare qualche domanda sul rapporto che hanno con gli italiani. “Perché dovremmo avercela con voi?! – risponde uno di loro con una risata – I nostri padri hanno fatto la guerra contro tuo nonno è vero. Ma noi abbiamo costruito il Paese che vedi anche grazie all’aiuto degli italiani che come Antonio sono rimasti a vivere qui dopo la cacciata dei fascisti. Tu sei figlio di quella generazione e sarai sempre benvenuto in Etiopia”. Forse è il velo di commozione che attraversa il mio sguardo a convincere finalmente il cameriere a servirmi. Mentre assaporo la delizia del macchiato, penso che in questa bevanda c’è un pizzico della storia che mi è stata appena raccontata: la fragranza ancestrale del caffè etiope estratta con macchine fabbricate in Italia – in alcuni casi straordinari pezzi da museo – diffuse in tutti i migliori locali di Addis Abeba. Un connubio che mi lascia in bocca il sapore della riconciliazione.

courtesy of Alessia Gammarota http://www.alessiagammarota.com/

Quella del caffè invece è una storia che ha per protagonisti dei pastori. Pastori di capre e di anime. La leggenda vuole che sia stato Kaldi, un giovane della regione etiope di Kaffa, il primo uomo ad assaggiare una bacca di caffè. Incuriosito dall’improvvisa vivacità delle sue capre, decise di provare anch’egli il frutto di cui si erano appena nutrite. In preda all’euforia della scoperta, Kaldi raccolse le bacche e le portò al più vicino monastero. L’usanza di masticare caffè durante le notti di preghiera si diffuse presto tra i monaci di tutta l’Etiopia. A lungo il caffè continuò a essere mangiato e non bevuto. Le bacche erano assunte sia intere che sminuzzate e mescolate al burro bollito, una pratica ancora in uso nelle terre più remote delle regioni di Kaffa e Sidamo. I natali del caffè sono rivendicati anche dallo Yemen: un’altra leggenda colloca infatti Kaldi al di là del mar Rosso, dove avrebbe rivelato la sua scoperta agli imam del monastero di Chehodet. Il frate maronita Antonio Fausto Nairone, teologo della Sorbona vissuto nel Diciasettesimo secolo, riporta invece la storia secondo cui il caffè sarebbe stato un dono di Allah a Maometto, che gli inviò l’Arcangelo Gabriele con “una bevanda forte e scura in grado di dare vigore tale da disarcionare 40 cavalieri e soddisfare altrettante vergini in un solo giorno”. Diffuso nel mondo arabo già dal Sesto secolo, su entrambe le sponde del mar Rosso il caffè è considerato un dono divino, che ha il potere di destare la mente e lo spirito. Intorno al 1600, da Venezia cominciò a raggiungere i porti inglesi e del resto d’Europa. All’inizio del Diciottesimo secolo in Inghilterra vi erano già migliaia di coffee-house, circoli frequentati da letterati, filosofi e politici che misero le ali al secolo dei Lumi.

courtesy of Alessia Gammarota http://www.alessiagammarota.com/

Oggi, tra i pezzi d’arredamento più importanti di ogni casa abebina c’è un tavolino basso su cui è sistemata una serie di tazzine senza manico chiamate sini e una brocca d’argilla scura dal collo stretto, la jebena, prima caffettiera della storia. Ogni giorno la padrona di casa distende davanti al tavolo un tappeto di erba tagliata di fresco, il guzguaz. I chicchi di caffè vengono tostati in una scodella concava fin quando non raggiungono la giusta colorazione. Prima di pestarli nel mortaio, la donna ne diffonde la fragranza fumante con una serie di gesti delicati delle mani. La jebena piena d’acqua bollente giace su un piccolo braciere, pronta a ricevere la polvere di caffè. Al momento di servire la bevanda possono essere aggiunti zucchero e un ramoscello di ruta. Ma anche burro e sale, o addirittura dell’aglio, a seconda della regione di provenienza degli ospiti. Il primo giro, abol, è per gli anziani e per i padri. Il secondo e il terzo, tona e baraka – ottenuti aggiungendo nuova acqua nella jebena e dunque meno forti – sono invece per le madri e per i più giovani. Ogni giro è accompagnato dal cholo (mais, orzo e grano tostati, mescolati con arachidi e ceci secchi). Una cerimonia che può durare ore e rappresenta l’occasione ideale per confrontarsi in famiglia, affrontare problemi e progettare il futuro insieme ai propri cari. Un rito antico e sempre vivo, che trasforma il caffè da semplice bevanda a strumento liturgico.

courtesy of Giuseppe Mazzola http://giuseppemazzolaphoto.altervista.org/