Che scatto il Mandela etiope – il venerdì di Repubblica 10/2018

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Gli etiopi sono celebri maratoneti, storici campioni della lunga distanza. Ma stavolta in Etiopia è il tempo di uno scattista straordinario. Da quando è stato nominato primo ministro, ad aprile, Abiy Ahmed ha impresso all’azione di governo un ritmo tale da mettere in difficoltà anche i cronisti più attenti, che faticano a tenere il suo passo. “Abiy sta elettrizzando l’Etiopia”, ha scritto il Guardian, che lo ha paragonato a Nelson Mandela, Justin Trudeau, Barack Obama e Mikhail Gorbachev.

Scelto per sostituire il dimissionario Hailemariam Desalegn dal Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope – l’alleanza di governo al potere dalla caduta del regime militare del Derg nel 1991 – Abiy ha preso la guida di un Paese che da oltre 3 anni è attraversato da violente tensioni e che molti giudicavano sull’orlo del collasso. Gli sono bastati pochi mesi per scatenare, al contrario, nuove speranze e un ottimismo contagioso.

Appena entrato in carica, ha revocato lo stato di emergenza, rilasciato migliaia di prigionieri politici e legalizzato gruppi di opposizione considerati fino ad allora terroristici. Di “terrorismo” ha accusato invece chi ha torturato e ucciso centinaia di manifestanti, ordinando un repulisti ai vertici delle forze di sicurezza. È intervenuto contro la censura, sbloccando centinaia di canali televisivi e siti web antigovernativi basati all’estero, ora visibili anche in Etiopia. La libertà di espressione sembra essere il cavallo scelto da Abiy per accompagnare il suo Paese verso una svolta democratica, dove il dissenso non sia più brutalmente represso ma si trasformi invece in un elemento organico allo sviluppo nazionale.

La sua chiamata all’unità degli etiopi ha incontrato un entusiasmo quasi universale. Anche gli storici oppositori della diaspora oggi organizzano manifestazioni in suo favore. Alcuni hanno cominciato addirittura a tornare in Etiopia. Nel suo viaggio a luglio negli Stati Uniti, dove è stato accolto da folle di connazionali in festa, Abiy ha convinto il patriarca ortodosso Merkorios a rientrare in patria dopo 27 anni di esilio – era stato costretto a lasciare l’Etiopia dopo la caduta del Derg, diventando il patriarca della diaspora statunitense – riconciliando così la Chiesa etiope. Ad Addis Abeba sta per tornare il maratoneta Feyisa Lilesa, argento alle Olimpiadi di Rio, dove tagliò il traguardo incrociando sopra la testa le braccia coi pugni chiusi, gesto simbolo delle proteste in corso in Etiopia: “se fossi rientrato negli ultimi 2 anni sarei stato arrestato, torturato e forse ucciso – ha detto alla Cnn – Il nuovo governo mi ha promesso invece un’accoglienza da eroe”.

Dell’apertura di Abiy ha approfittato anche un capopopolo come Jawar Mohammed, controverso fondatore di Oromia Media Network, noto per aver veicolato le protesta dei queeroo, i giovani oromo protagonisti delle manifestazioni antigovernative degli ultimi anni: “sono stati i queeroo a sconfiggere la dittatura e portare Abiy dove si trova. Il suo compito ora è molto semplice: accompagnare l’Etiopia a elezioni democratiche (previste per il 2020, ndr). La legge elettorale va riformata al più presto e il comitato elettorale riorganizzato. Al contrario, l’attuale governo di transizione non sembra impegnato su questo fronte”, ha raccontato in un’intervista concessa ad Addis Standard appena rientrato in Etiopia. Cauto anche Eskinder Nega, attivista e giornalista che ha trascorso gran parte degli ultimi 14 anni in prigione per la sua lotta a favore della libertà di espressione e mi dice: “un Paese non può essere governato solo dall’ottimismo. Abiy deve anzitutto preparare elezioni libere ed eque. Altrimenti la transizione democratica promessa si perderà in un vicolo cieco”.

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Nato nel 1976 (è il più giovane premier africano) da padre oromo mussulmano e madre amhara cristiana, le origini di Abiy invitano a valorizzare le differenze etniche e religiose di cui è ricca l’Etiopia. Ma rispecchiano anche l’alleanza politica tra i 2 gruppi maggioritari nella popolazione, oromo e amhara, volta a contrastare i tigrini, il gruppo che invece rappresenta appena il 7% degli etiopi ma domina il Paese da quando nel 1991 l’ha liberato dal regime militare guidato da Mengistu. Anche per questo il nuovo primo ministro gode di un forte consenso (oltre il 90% della popolazione, secondo i sondaggi), nonostante sia cresciuto all’interno del sistema di governo. Ha infatti prestato a lungo servizio nell’esercito, in cui è entrato adolescente unendosi alla resistenza anti-Derg ed è rimasto fino a raggiungere il grado di luogotenente colonnello. Nel 2007 ha fondato la Information Network Security Agency, l’agenzia governativa che si occupa di cyber-sicurezza e che ha sempre esercitato un controllo e una censura molto forti su internet, soprattutto in chiave anti-proteste. Dal 2010 è membro dell’Organizzazione Democratica del Popolo Oromo, uno dei 4 partiti che forma l’alleanza di governo.

Se il suo curriculum alimenta alcuni dubbi, l’impegno per la pace convince senza remore. In Ogaden, uno dei fronti più caldi, Abiy ha sostituito ai vertici del governo regionale il sanguinario Abdy Illey – fondatore della polizia paramilitare Liyu, più volte indicata da Human Rights Watch come responsabile di abusi e violenze – con l’attivista per i diritti umani Mustafa Omer. Ora l’emergenza più alta è nel Sud del Paese, dove scontri interetnici hanno già causato oltre un milione di sfollati.

Gli sforzi per la stabilizzazione non sono rivolti solo all’interno dell’Etiopia, come dimostra lo storico accordo raggiunto con l’Eritrea: dopo 2 campagne militari costate quasi 100mila vite e 20 anni di guerra fredda, il confine tra i 2 Paesi è stato finalmente demilitarizzato, le ambasciate riaperte e la libera circolazione ristabilita. Sul fronte egiziano – reso bollente dalla Grand Ethiopian Renaissance Dam, l’impianto idroelettrico più grande dell’intera Africa, che l’impresa italiana Salini-Impregilo sta realizzando per il governo etiope lungo il Nilo azzurro – Abiy sembra aver trovato un’intesa con Abdel Fatah al Sisi: l’incontro al Cairo si è chiuso con sorrisi e abbracci, gli stessi andati in scena a più riprese con il dittatore eritreo Isaias Afewerki. Le folle entusiaste che hanno salutato il nuovo primo ministro etiope anche durante le visite in Sudan, Kenya, Uganda e Somalia sono segno di una popolarità che va oltre i confini nazionali. Ma l’attentato subito nella piazza principale di Addis Abeba durante una grande manifestazione in suo favore – il lancio di una granata ha fatto 2 morti e decine di feriti, portando all’arresto per “negligenza” del vice-capo della polizia e di altri 9 agenti – testimonia come non manchi chi è intenzionato a ostacolarlo. “Credo che il destino del Paese dipenderà soprattutto da quanto l’esercito e l’intelligence saranno fedeli ad Abiy”, ha dichiarato alla Bbc Bekele Gerba, leader del Congresso Federale Oromo e tra gli oppositori scarcerati all’inizio dell’anno.

Oltre che dal processo di pace, il successo di Abiy sarà deciso dagli sviluppi economici. L’Etiopia si è indebitata in modo pesante per finanziare grandi investimenti in infrastrutture. Le casse statali si trovano quindi in una cronica mancanza di valuta forte. Per farvi fronte, il nuovo governo ha annunciato un giro di privatizzazioni su alcuni settori chiave dell’economia finora riservati al controllo pubblico: telecomunicazioni e trasporti saranno presto aperti ai capitali esteri.

Per attrarre investitori stranieri, finora il governo etiope ha fatto una bandiera commerciale del basso costo del lavoro e dell’assenza legale di un salario minimo per il settore privato (quello per gli impiegati pubblici è di 420 birr al mese, circa 13 euro). “I salari in Etiopia non sono bassi, sono anormali. A esempio, i professori più esperti e pagati delle università etiopi hanno un salario di circa 6000 birr (neppure 200 euro), una cifra 4 volte inferiore al salario d’ingresso di un giovane ricercatore in un’università keniota. E il costo della vita ad Addis non è certo inferiore a Nairobi”, spiega l’economista Ayele Gelan. Stesso discorso per i medici pubblici, come mi racconta il cardiologo Biniyam Barega: “I professionisti più capaci emigrano in cerca di stipendi degni. Il governo sembra interessato soltanto a mantenere un mediocre esercito di riserva”. La ripetuta svalutazione della moneta e il blocco dei salari hanno causato inflazione e aumento delle disuguaglianze. Pessimi compagni di viaggio per chi cerca pace e stabilità.

In un Paese in cui circa l’80% della forza lavoro è impiegato in agricoltura, altra questione fondamentale rimane la gestione della terra. La costituzione etiope sancisce che “la terra è proprietà comune delle nazioni, nazionalità e popoli d’Etiopia”, vietandone la proprietà privata. Di fatto, dietro gli slogan patriottici della retorica di regime, il governo ne ha sempre fatto il suo principale strumento di potere. Le continue espropriazioni imposte ai contadini, indennizzati con cifre irrisorie per far spazio a infrastrutture o altri progetti commerciali, sono state la scintilla che ha infiammato le proteste degli ultimi anni. Abiy non ha ancora chiarito come intende affrontare la questione, se limitandosi ad aumentare gli indennizzi, in linea con il precedente governo, o concedendo finalmente maggiori diritti a chi lavora la terra.

Nonostante dubbi e interrogativi, l’Etiopia è comunque in piena Abiymania. Come raccontano anche l’Economist, timoroso però “che il nuovo primo ministro sia ormai oggetto di un culto personale”, e la CNN, che si chiede “perché gli etiopi credono che Abiy sia un profeta”. In effetti per le strade di Addis risuonano canzoni dedicate a lui, mentre i venditori ambulanti stanno facendo affari d’oro con magliette, adesivi e poster. Il libro più popolare del momento, Mosè, lo compara proprio al profeta. Su Change.org ci sono centinaia di petizioni dirette al comitato per il Nobel, firmate da milioni di sostenitori, perché Abiy ottenga il più celebre premio per la pace. Come Nelson Mandela. Proprio a quest’ultimo sembra volersi rifare il nuovo primo ministro etiope, che in diverse occasioni pubbliche si è presentato facendo il celebre saluto col pugno destro chiuso e indossando magliette con la faccia di Madiba. Una, sotto il volto del leader africano più amato, recitava anche una sua celebre frase: “nessuno sarà libero finché l’ultimo rimane in catene”. Se Abiy ha davvero nel cuore e nella mente questo messaggio, magari le petizioni inviate a Oslo potrebbero avere successo.