In Etiopia è guerra al Nobel della pace – il venerdì di Repubblica 11/2019

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L’11 ottobre, mentre i grattacieli di Abu Dhabi si illuminavano a formare una mastodontica bandiera etiope avvolta da potenti fuochi d’artificio – rivendicazione ostentata della paternità emiratina dello storico accordo firmato nel luglio 2018 tra Etiopia ed Eritrea – l’annuncio del premio Nobel per la pace al premier Abiy Ahmed è stato invece accolto in patria da un diffuso scetticismo. La leggerezza delle magliette col sorriso a pugno chiuso di Mandela, con cui appena un anno e mezzo fa il nuovo primo ministro etiope salutava folle entusiaste per il suo insediamento, negli ultimi mesi ha lasciato spesso il posto a cupe uniformi militari. Un cambio di look indizio della drastica rivoluzione di scena in Etiopia.

A interrompere l’idillio tra Abiy e la sua gente sono stati proprio alcuni di quei capipopolo considerati “terroristi” dal precedente governo e riaccolti dal nuovo premier nel suo sforzo di riconciliazione nazionale. Il 23 ottobre, molte città etiopi sono state attraversate da violenti cortei di protesta. A innescare il caos, un post su Facebook diretto ai suoi 2milioni di seguaci da Jawar Mohammed, in cui il controverso fondatore di Oromia Media Network (Omn) e leader indiscusso dei qeerroo – i giovani Oromo protagonisti dei disordini che da anni mettono a dura prova la stabilità dell’Etiopia – denunciava il tentativo, smentito dal governo, di rimuovere la sua scorta. Le strade di Addis Abeba sono state subito invase da centinaia di gruppi di qeerroo armati di bastoni e machete, che hanno riempito l’aria della capitale con slogan contro Abiy e dato alle fiamme copie del suo libro “Medemer” (alla lettera “mettere insieme”, unire), pubblicato pochi giorni dopo l’annuncio del Nobel. Devastazioni e violenze su base etnica si sono estese a molte altre città del sud-est del Paese, provocando oltre 80 morti e centinaia di arresti. In alcuni casi sotto attacco sono finite anche chiese e moschee, segno che il conflitto rischia di alimentarsi anche su base religiosa. Se da un lato si moltiplicano le richieste di incriminazione nei confronti di Jawar per i ripetuti incitamenti all’odio razziale – una petizione popolare diretta a Facebook e al governo degli Stati Uniti, di cui Mohammed è al momento cittadino, paragona la propaganda violenta di Omn con il ruolo svolto da Radio Télévision Libre des Mille Collines nel genocidio in Ruanda – dall’altro Abiy sa bene che perseguire il loro leader equivarrebbe a una dichiarazione di guerra per i qeerroo.

Questa ondata di caos fa seguito al tentato colpo di Stato originato lo scorso giugno in Amhara, la seconda regione più popolosa dopo l’Oromia. Protagonista del presunto push, il generale Asamnew Tsige: membro di Ginbot 7, un’organizzazione considerata “terrorista” dal precedente governo, era stato scarcerato da Abiy e arrivato a ricoprire addirittura la carica di capo della sicurezza regionale. I suoi corpi di polizia “speciale” hanno fatto irruzione nel palazzo del governo Amhara e ucciso il presidente Ambachew Mekonnen e altri ufficiali. Nel frattempo, ad Addis Abeba, il capo di Stato maggiore dell’esercito federale, Seare Mekonnen, veniva assassinato da una delle sue guardie del corpo, reo di aver ordinato la repressione degli insorti. Quasi 200 tra politici, attivisti e giornalisti vicini ai nazionalisti locali – National Movement of Amhara (Nama) – sono stati arrestati nei giorni successivi, alimentando il risentimento locale verso Abiy e la sua supposta corte Oromo.

In molti dei 9 Stati regionali che formano la Federazione etiope, i movimenti nazionalisti stanno conquistando consenso, mentre si rafforzano le milizie locali, che in alcune regioni arrivano a contare decine di migliaia di soldati armati fino ai denti. Il tentato colpo di Stato in Amhara sarebbe stato innescato proprio dalla volontà del governo centrale di mettere un freno alla crescita del corpo paramilitare locale, che si stava rafforzando in risposta al parallelo sviluppo delle milizie in Oromia e Tigrai. “Uno degli errori costituzionali più gravi è stato creare delle forze di sicurezza autonome in ogni regione: nessuna nazione gli può sopravvivere”, afferma Mustafa Omer, attivista per i diritti umani nominato da Abiy nuovo presidente della regione Somali al posto del sanguinario Abdy Illey, fondatore della polizia paramilitare Liyu, più volte indicata da Human Rights Watch come responsabile di abusi e violenze.  

La Costituzione etiope del 1995 riconosce a ognuno degli oltre 80 gruppi etnici che compongono il Paese il diritto a formare un proprio Stato regionale semi-autonomo, che oltre alla sicurezza interna gestisca da sé anche istruzione, sanità e altre funzioni pubbliche. Un’eventualità scoraggiata con forza dal precedente governo. Ma che ora è diventata invece una possibilità concreta, grazie alla democratizzazione promossa da Abiy. I primi ad approfittarne sono stati i Sidama, quinto gruppo più popoloso dell’Etiopia, chiamati a decidere in proposito il 20 novembre con un referendum. Già in programma per lo scorso luglio, la scelta del governo centrale di rimandarlo aveva provocato violenti proteste, costate decine di morti e centinaia di arresti. Se l’esito della votazione era scontato – ha votato a favore della semi-indipendenza oltre il 90% dei 2,3milioni di persone iscritte al voto – più complicate saranno invece le negoziazioni successive, che declineranno il nuovo assetto delle Southern Nations, lo Stato regionale di cui il Sidama faceva parte. Per qualche anno almeno, la città di Hawassa dovrebbe rimanere capitale comune a entrambi le regioni. Ma sulla scia dei Sidama altri gruppi, come a esempio gli Hadija, potrebbero scegliere la semi-autonomia.

Se la crescita dei nazionalismi rappresenta un rischio per l’unità del Paese, a scongiurare gli scenari più tetri dovrebbero contribuire le decine di miliardi di dollari investiti negli ultimi anni in Etiopia. Mega-impianti idroelettrici, parchi industriali, ferrovie e autostrade, che hanno bisogno di stabilità per ripagare gli investitori. Il nuovo governo ha inoltre liberalizzato il settore delle telecomunicazioni e aperto alla privatizzazione di gioielli nazionali come Ethiopian Airlines, ghiotte occasioni per il capitale globale. Quanto accade ad Addis Abeba lascia pensare che si scommetta sulla pace: a La Gare – la vecchia stazione costruita nel centro della capitale dai colonizzatori francesi oltre un secolo fa – la compagnia emiratina Eagle Hills ha appena avviato un progetto da 1,8miliardi di dollari che rivoluzionerà un’area di 36 ettari con centri commerciali, hotel a 5 stelle e oltre 4mila appartamenti di extra-lusso. Nel quartiere di Gotera saranno invece protagonisti capitali e compagnie cinesi, con un progetto ancor più faraonico da 3miliardi di dollari su 37 ettari. Rivoluzioni urbanistiche in cui Abiy ha mancato però l’occasione di marcare una discontinuità con la precedente amministrazione: anche stavolta gli accordi sono stati conclusi a porte chiuse, senza alcuna concertazione pubblica.

Lastricata di buone intenzioni, anche la strada verso le prossime elezioni politiche sembra accidentata. “Di certo non sarà un’elezione ‘libera e giusta’ come promesso. I preparativi infatti sono stati finora del tutto inadeguati”, ci dice Tom Gardner, corrispondente dell’Economist. Tra l’altro, il censimento nazionale è già stato rimandato 2 volte. Abiy vorrebbe riunire i maggiori partiti di ogni Stato in una coalizione che verrà chiamata Ethiopian Prosperity Party. Ma la situazione politica è ancora più complicata di quella precedente alle elezioni del 2005. “Il rischio che possa ripetersi quanto avvenuto allora – lo storico premier Meles Zenawi aprì alla libertà di espressione e alle opposizioni per poi affogarle in un bagno di sangue, ndr – è purtroppo molto alto”, continua Gardner. Il prossimo maggio scadrà il mandato elettorale di Abiy e come insegna il referendum Sidama rimandare il voto sarebbe un rischio. Ma Birtukan Mideska – ex-giudice e tra le figure storiche dell’opposizione, scelta da Abiy a capo del comitato elettorale nazionale – avverte: “Al momento ci sono quasi 3 milioni di sfollati interni. Se la sicurezza del Paese non migliorerà, non possiamo dire alla gente di andare a votare”.

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