La città degli Hazarà – Terre di mezzo 10/2006

01 Cop_TDM Ok M Amit gioca col biglietto per Nizza. Il cartoncino passa da una mano all’altra mentre lui lo scruta scuro, quasi volesse interrogarlo. Ha 15 anni ma è già un viaggiatore esperto. Scolpiti negli occhi e sulla suola delle scarpe, i 6 mila chilometri che separano Afghanistan e Italia. È mezzanotte e tra qualche minuto parte il treno della sua speranza. Lo attende rannicchiato sul marciapiede del quarto binario, la schiena poggiata a una colonna della stazione Ostiense di Roma. Arrivato nella capitale da qualche giorno, ha passato le ultime notti sospeso su una grata di ferro sotto i lampioni di Piazzale dei Partigiani. Cinque metri più in basso la vertigine d’asfalto del parcheggio sotterraneo.

Attorno alla stazione Ostiense, da sempre un centro di gravità per i senza dimora, orbitano ogni mese decine di minori afgani. Distesi su vecchi cartoni, passano la notte stretti l’uno all’altro, avvolti nelle coperte. Un fenomeno che dal 2005 è cresciuto esponenzialmente, fino a trasformare gli afgani in uno dei gruppi di minori stranieri non accompagnati più numerosi della capitale. I dati raccolti dall’unità mobile di strada, gestita dagli operatori di Save the Children, Casa dei diritti sociali e Caritas, raccontano che oltre il 35% dei 554 minori contattati nell’ultimo anno sono afgani (195), quasi tutti appartenenti all’etnia di origine mongola Hazarà, storicamente la più perseguitata del Paese.
Per venire in Italia affrontano un viaggio che può costare dai 3 agli 8mila euro.

Ma il prezzo più alto dell’odissea di questi adolescenti è quello pagato in termini di vite umane. Assiderati sulle montagne tra Iran e Turchia, annegati nel Mar Egeo o nell’Adriatico, vittime di incidenti stradali o soffocati dalle merci tra cui si nascondono nei camion: la cronaca internazionale degli ultimi anni ha segnato punto per punto questa rotta migratoria coi cadaveri delle sue vittime (vedi box). “Per arrivare nel vostro Paese può servire più di un anno; io ho impiegato 3 mesi – ci racconta in un ottimo italiano il sedicenne Ramin, da 8 mesi ospite di una casa famiglia – passando attraverso Pakistan, Iran, Turchia e Grecia. Quando siamo partiti dall’Afghanistan eravamo 80. Qui in Italia ne saranno arrivati 15, al massimo 20… Alcuni sono morti sulle montagne, altri sono rimasti soffocati nei camion. A me è andata bene perché ho scelto con attenzione quando avanzare e quando invece era il momento d’aspettare”.

04-05_Romaok MIncontriamo Ramin nell’internet point all’angolo tra via della stazione Ostiense e via Carletti. Nei venti metri quadri del seminterrato è un via vai continuo di afgani. Distante solo qualche centinaio di metri dalla stazione, per loro è un altro punto abituale di ritrovo. All’interno, un paio di cabine attrezzate per le telefonate internazionali e 6 vecchi computer che sul bordo superiore dello schermo hanno appiccicato l’avviso “Pay before use”. Visto l’andazzo, da ottobre il proprietario italiano ha pensato bene di raddoppiare i prezzi. Seduti in circolo sul marciapiede di via Carletti, un gruppo di ragazzini mi tempesta di domande in un inglese approssimato: “Possiamo lavorare? In che modo si ottiene asilo politico? Come funzionano i centri d’accoglienza?”. Hanno le idee confuse ma il morale piuttosto alto. Scherzano e ridono, nonostante dall’odore pungente e dalle unghie nere si capisca che hanno passato gli ultimi giorni per strada.

Chi tra di loro sceglie di fermarsi in Italia si distingue in seguito per la forte voglia d’integrarsi. A differenza dei minori romeni, moldavi e albanesi, una volta entrati nei centri d’accoglienza gli afgani non abbandonano il progetto avviato con le associazioni. I numeri del Centro di pronto intervento minori (Cpim) della Caritas, tra i più importati della città, sono un esempio chiaro: nel 2006 solo un ospite afgano si è dato alla fuga, contro 247 casi tra i romeni e 22 tra i moldavi. Il risultato è che oggi al Cpim sono quasi tutti afgani. I primi 4 sono arrivati nel 1999 ma, anche in questo caso, è dal 2005 che il loro numero ha cominciato a crescere rapidamente: da 12 ragazzi nel 2003 e 18 nel 2004, si è passati a 41 ospiti lo scorso anno e già 34 nei primi mesi del 2006.
Questo desiderio d’integrazione però non sempre trova terreno fertile tra le istituzioni. “A Roma l’emergenza minori è alle stelle – ci racconta Susanna Matonti di Casa dei diritti sociali – e, come se non bastasse, dobbiamo fare i conti anche con la disorganizzazione”. L’unità mobile di strada, di cui Susanna fa parte, segnala i minori ai commissariati. La polizia poi deve occuparsi di accompagnarli nei vari centri d’accoglienza. A volte però i commissariati di riferimento, sovraccarichi di lavoro, incontrano difficoltà a offrire la necessaria collaborazione.

04-05_Romaok MUna volta raggiunta la maggiore età inoltre, sono molti i ragazzi che non ottengono un nuovo permesso di soggiorno. Ad altri ancora viene negato lo status di rifugiati. Aji, 23 anni, divide una baracca lungo il Tevere con un russo e un ucraino. Sotto al berretto da baseball, la sua guancia sinistra è coperta da un’escrescenza simile ai nodi di cui si riempie la corteccia di un vecchio albero. È in Italia da 3 anni ma è ancora un clandestino. “Per rivendicare il diritto d’asilo, a febbraio decine di noi hanno fatto lo sciopero della fame davanti la sede dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur). Ma la situazione non è cambiata e oggi siamo ancora in tanti ad aspettare di emergere dall’illegalità. Mi spiace dirlo ma il tuo Paese non ci da una mano.”
Neanche il suo lo aiuta. “Afgani? A Piazzale dei Partigiani? Davvero? Non ne sapevamo nulla…”. Il Primo segretario dell’ambasciata afgana, una donna con un forte accento anglosassone, di fronte alla mia curiosità sembra cadere dalle nuvole. Poi riprende l’equilibrio e vola alto: “A chi ci contatta suggeriamo di fare ritorno nel proprio Paese. Oggi l’Afghanistan è libero e democratico. Non ha senso vivere qui in Italia da clandestini”.

Un’odissea lunga seimila chilometri
Gli afgani che scelgono d’inseguire il sole hanno di fronte un’odissea. Oltre 6mila chilometri attraverso Iran, Turchia e Grecia. Chi volesse disegnare questa rotta migratoria, potrebbe orientarsi con le centinaia di cadaveri rinvenute lungo il suo corso.
Nei campi minati della provincia greca di Euros, tra chi prova ad attraversare a piedi la frontiera nord-orientale con la Turchia, ogni anno i morti si contano a decine. Le ultime 2 segnalazioni della cronaca internazionale risalgono al 12 settembre. Sul Mar Egeo, a bordo d’imbarcazioni di fortuna, i naufragi hanno fatto già 400 vittime. Tra queste, i 3 bambini rinvenuti annegati dalla guardia costiera turca il 26 luglio scorso. Per tanti altri poi, il viaggio s’interrompe ancora prima. Sulle montagne che separano la Turchia dall’Iran, assiderati lungo lo snodo dei valichi. Oppure negli incidenti stradali, frequenti lungo la strada: il 20 maggio, nella Turchia del sud, lo scontro tra un camion carico d’immigrati e un tir ha causato 44 morti.