La dittatura del pesce – il manifesto 8/2009

Mauritania

In Mauritania si fanno pesci a palate. Sulla spiaggia della capitale Nouakchott, le piroghe si muovono come una spola tra i grandi pescherecci da strascico ormeggiati a largo e il bagnasciuga. Assediate dall’Atlantico e stracolme di pesce, le lunghe imbarcazioni di legno dai colori sgargianti tagliano le onde sbuffando. A riva l’equipaggio imbraccia grandi pale di rete intrecciata, e riversa quintali di carico nelle cassette di plastica adagiate sulle teste dei portatori. Spetta a quest’ultimi coprire il tratto di spiaggia che separa il bagnasciuga dai camioncini arrugginiti in attesa nello spiazzo d’asfalto. Lungo il tragitto il pesce straborda spesso, per finire tra le mani fulminee di gruppetti di ragazzini affamati. Non soddisfatti di quanto riescono a raccattare sulla sabbia, alcuni approfittano dell’imbarazzo dei portatori – imbalsamati nelle cerate gialle e nei turbanti che lasciano solo una fessura per gli occhi – per sfilare con un salto qualche altro esemplare direttamente dalle cassette. Un’ora appena di appostamenti, cadenzata da minacce e qualche raro scapaccione, e i piccoli avvoltoi possono tornare ghignanti e a mani piene verso le loro baracche.

“Le acque che bagnano la costa mauritana sono le più ricche del mondo. Qui il pesce non finirà mai!”, dice orgoglioso Doudou Fall Sambanor, segretario generale della Federazione nazionale di pesca. Poi inforca gli occhiali – le lenti spesse un paio di centimetri almeno – e passa a elencare i suoi numeri: una media di 700mila tonnellate di pescato ogni anno, quasi esclusivamente dirette ai mercati stranieri, che generano circa la metà delle entrate dal commercio con l’estero e un quarto abbondante delle risorse statali. Il settore da lavoro a oltre un terzo della popolazione.

Doudou vive e lavora a Nouadhibou, capitale dell’economia del pesce. Qui ci sono tutti i più importanti uffici pubblici della Pesca, i magazzini e le ville con piscina degli esportatori. Ma anche la più consistente flotta di pescatori artigianali: 4mila piroghe, ognuna con a bordo tra 5 e 8 uomini. Il porto – zona proibita ai curiosi – è un labirinto di vicoli elettrici affollati da un’umanità straordinaria. Grasse signore avvolte da colori vivaci distribuiscono uova sode, sigarette sfuse e bicchierini di te spumeggiante tra marinai stanchi, meccanici unti e militari diffidenti. Superata la banchina, si apre una distesa di sabbia battuta avvolta dal fumo e da odori nauseanti. Uomini e donne provenienti da ogni angolo dell’Africa occidentale, sono occupati a sventrare, spellare ed essiccare il pesce appena acquistato sul vantaggioso mercato locale. Tappeti di razze ricoprono il terreno, mentre una straordinaria varietà di pesce azzurro e frutti di mari giganteschi stanno sospesi su reti tese sotto il sole cocente. Una volta essiccato, il prodotto viene pressato nei sacchi di iuta o semplicemente accatastato sul dorso dei camion.

Mentre il pesce “povero” viaggia verso i poveri mercati dell’Africa interna, quello pregiato destinato ai mercati più ricchi rimane invece parcheggiato nei magazzini degli esportatori. Per “abbassare il prezzo sul mercato locale”, la giunta militare salita al potere lo scorso agosto con un colpo di stato ha infatti decretato il blocco dell’esportazioni delle specie di maggior pregio, come dorade, merou, thiof. “Il governo pensa che la produzione si dirigerà verso il mercato locale – spiega Lamine Ould Katari, esportatore nei mercati portoghese e spagnolo – Un grave errore di diagnosi: i mauritani non mangiano pesce!”.

A pagare il blocco delle esportazioni imposto lo scorso novembre sono stati soprattutto i pescatori artigianali. Per disporre di uno spazio all’interno delle strutture frigo, i pescatori più piccoli sono costretti a rivolgersi ai grandi esportatori privati. Il blocco ha immobilizzato buona parte del pescato nelle celle frigorifere, e i prezzi per un angolo al fresco sono raddoppiati. “È un vero schifo – sbraita Yarba, mentre trascina 2 enormi taniche di gasolio verso la piccola imbarcazione su cui lavora da anni – Come se non bastasse la concorrenza sleale dei grandi pescherecci stranieri.. Se il governo vuole abbassare il prezzo del pesce sul mercato locale, perché non comincia a finanziare l’ammodernamento della flotta nazionale? In tutto la Mauritania non c’è una sola struttura frigo a disposizione di noi pescatori artigianali! Come vengono usati i soldi che ogni anno le flotte straniere pagano per il diritto a far man bassa nelle nostre acque? Da quando c’è il blocco, buona parte del pescato è rimasto invenduto. Moriamo di fame! Il governo? Puah.. La sorte di noi poveracci non sta a cuore a nessuno. Ils s’en fouttent!”.

Il blocco che ha messo in ginocchio il settore ittico è uno dei tanti provvedimenti “populisti” presi, a danno del popolo, dal generale Mohamed Ould Abdel Aziz, capo dei golpisti e nuovo dittatore della Mauritania. “È inaccettabile che il prodotto migliore delle nostre acque sia consumato all’estero”, ha tuonato scatenando piogge d’applausi tra i suoi sostenitori. Da quando ha rimosso con le armi l’economista Sidi Ould Cheik Abdallahi, vincitore nell’aprile 2007 delle prime elezioni democratiche nella storia del Paese, Abdelaziz ha lavorato di fino per ingraziarsi l’opinione pubblica mauritana. La lotta contro la corruzione e gli sprechi, mali che lo hanno “costretto” a rovesciare la precedente amministrazione, sono i cavalli di battaglia della sua retorica politica. Approfittando della congiuntura favorevole del mercato alimentare e petrolifero, ha abbassato i prezzi di molti prodotti di prima necessità: 25% in meno sulle bombole di gas e sulla benzina, 20% sul pane, 10% sulle medicine. Deciso a conquistare i cuori della massa, ha annunciato grandi lavori sulla rete elettrica e idraulica nazionale, e promesso l’assegnazione di terre ai diseredati che vivono nelle baraccopoli. Secondo i calcoli di un anonimo diplomatico occidentale, questa linea politica starebbe pesando 25milioni di dollari al mese sulle casse dello Stato. “Una strategia alimentata a colpi di sovvenzioni pubbliche – spiega Jedna Deida, direttore de Le quotidien de Nouakchott – dando il colpo di grazia a un bilancio statale che dipende in gran parte dagli aiuti della cooperazione estera. Alla fine della giostra sarà il popolo mauritano a pagare di tasca propria, come sempre”.

Complice una forte campagna di repressione – comizi e manifestazioni pubbliche sono stati vietati o soffocati, mentre Reporters sans frontières ha denunciato minacce e aggressioni a danno di alcuni giornalisti – né la stampa né l’opposizione sono riuscite a scalfire i piani di Abdelaziz. Il 18 luglio il generale ha legittimato il suo potere attraverso elezioni democratiche dalle tinte farsesche. Per presentarsi come candidato alle presidenziali da lui stesso inizialmente indette per il 6 giugno, il generale si è dimesso ad aprile dall’esercito, abbandonando la poltrona di presidente dell’Alto consiglio di Stato, la giunta di 11 membri da lui creata all’indomani del rovesciamento di Abdellahi. Solo 10 giorni prima, in assenza di sforzi concreti per ritornare all’ordine costituzionale, l’Unione europea aveva deciso di sospendere l’erogazione degli aiuti (156milioni di euro previsti tra il 2008 e il 2013). Come sostituto temporaneo Abdelaziz ha scelto Ba Mamadou M’Bare, che è divenuto così il primo capo di Stato nero dall’indipendenza. Una mossa di grande effetto in un Paese in cui la dénégrification della popolazione è stata sempre una priorità per gli arabi al potere, e in cui ancora oggi il colore della pelle è una pregiudiziale e la schiavitù una realtà documentata.

Da principio l’opposizione sembrava decisa a boicottare le elezioni, definite “una mascherata dagli esiti scontati”. Poi però i generosi contributi internazionali offerti per la transizione dal colpo di stato a elezioni presidenziali consensuali hanno sciolto ogni riserva. In 3 settimane sono state organizzate nuove elezioni, in cui Nazioni unite e Unione europea non hanno neppure inviato i loro osservatori, lasciando l’onere del monitoraggio a Unione africana e Lega araba. Come prevedibile, già al primo turno il generale golpista si è trasformato in legittimo capo di Stato col 52,6% delle preferenze, mentre i 2 principali candidati d’opposizione si sono fermati rispettivamente al 16,3% e al 13,7%. Se qualcuno denuncia presunti brogli chiedendo la formazione d’una commissione d’inchiesta, il nuovo governo ha già ricevuto le “felicitazioni” di Sarkozy e Moubarak e la “disponibilità a collaborare” degli Stati Uniti. I grandi interessi che ruotano intorno alle ricche risorse mauritane – petrolio, pesce, ferro – potranno tornare a essere gestiti senza l’imbarazzo formale di una dittatura.

Politica Mauritania
Al confine tra Paesi arabi e Africa nera, tra Sahara e Sahel, la Mauritania copre un territorio chiave per gli equilibri geopolitici internazionali. Per Saddam Hussein è “la porta occidentale del mondo arabo”, e fino alla caduta del rais l’Iraq è il principale alleato del regime guidato dal colonnello Maouiya Ould Sid Ahmed Ould Taya (1984-2005). Gli esiti della seconda guerra del Golfo costringono però il governo mauritano a una drastica inversione verso Occidente. Nel 1999 la Mauritania diviene il primo Stato arabo ad accettare un’ambasciata israeliana sul proprio territorio, creando forte malcontento soprattutto tra le fasce più giovani della popolazione. La “lotta al terrorismo globale” e la scoperta di ricchi giacimenti petroliferi – subito affidati allo sfruttamento di Halliburton e soci – fanno sbarcare in Mauritania i berretti verdi: nel 2002 il dipartimento di Stato americano lancia la Pan-Sahel iniziative, un programma di addestramento militare guidato da agenti delle forze speciali. Le “milizie presidenziali” dirette da Abdelaziz sono le prime a beneficiare dell’appoggio militare statunitense. In breve il generale comincia ad accumulare potere, e nel 2005 è lui ha muovere i fili del colpo di stato che rovescia Taya. Per salvare la faccia gli Stati Uniti sospendono la cooperazione, costringendo Abdelaziz a sostenere libere elezioni. Il candidato scelto dai militari è proprio Abdellahi, un economista semi sconosciuto che però dimostra presto un’indipendenza inattesa: se da un lato rafforza i rapporti con gli statunitensi, dall’altro concede l’amnistia a numerosi salafiti arrestati come terroristi sotto il regime di Taya, e legalizza il partito islamista Tawassul, affiliato ai Fratelli musulmani. Il massacro di una famiglia di turisti francesi – cui fa seguito il trasferimento della Parigi-Dakar in America latina – e una serie di sequestri e omicidi attribuiti a cellule di fondamentalisti islamici, alzano l’allarme terrorismo. Abdellahi è accusato di favorire la diffusione del fondamentalismo islamico e l’ennesimo colpo di stato viene presentato dai militari come un passo necessario per contrastare Al Qaeda in Mauritania.