La rosa nera – il venerdì di Repubblica 2/2018

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Se Africa Rising è il motto che da vent’anni alimenta i sogni di oltre un miliardo di persone, l’Etiopia è il Paese che più di ogni altro li sta concretizzando. Scuole, ospedali, infrastrutture, edilizia popolare, industrie, centri commerciali e un turismo fiorente, sono la prova tangibile di una crescita economica elevata e costante. Addis Abeba, la “città foresta” fondata dall’imperatore Menelik, è ormai una moderna giungla di cemento. Nuovi grattacieli spuntano come funghi, mentre i tradizionali quartieri-villaggio fatti di legno, terra e lamiera vengono rasi al suolo per far spazio a una sky-line degna della capitale diplomatica dell’Africa. Un’autostrada fiammante, con file di caselli che splendono sotto il sole equatoriale, scende lungo la Rift Valley correndo affianco alla nuova linea ferroviaria per Gibuti. Cattedrale nel deserto giallo ocra che la circonda, la stazione di Debre Zeit sembra un miraggio. Poco più avanti, il percorso diverge dalla ferrovia per ricongiungersi con la strada che porta fino in Kenya. Ai lati della via cominciano a scorrere le serre della floricoltura, una delle principali industrie del Paese.

Se fino a poco più di 10 anni fa l’Etiopia non esportava un solo fiore, oggi è tra i 4 principali produttori globali (con Colombia, Kenya ed Ecuador). La floricoltura etiope vale circa 200milioni di dollari all’anno. Oltre un terzo delle rose che vengono vendute in Europa – quasi 100milioni di boccioli soltanto nel giorno di San Valentino – proviene da qui. Grazie a Ethiopian Airlines, principale compagnia africana, le rose etiopi si stanno affacciando anche sul mercato statunitense, dove godranno delle favorevoli condizioni offerte all’export sub-sahariano dall’African Growth and Opportunity Act – lo stesso di cui approfittano H&M, Pvh (Tommy Hilfiger, Calvin Klein), Calzedonia e le altre multinazionali del tessile, che negli ultimi anni si sono impiantate in Etiopia trasformandola in un nuovo hub globale.

La rivoluzione industriale dei fiori è cominciata a Ziway, un piccolo villaggio di pescatori che sorge attorno a uno dei tanti laghi vulcanici della Rift Valley,160 chilometri a sud di Addis. Era il 2002 quando John Barnhoorn – figlio del fondatore e attuale direttore della Sher, compagnia olandese leader mondiale del commercio di fiori – sbarcò nel villaggio di cui avrebbe cambiato per sempre la sorte. John, un uomo corpulento e dall’espressione seria, era venuto a controllare i terreni offerti dal governo etiope. La sua pelle bianchissima e gli occhi di un azzurro gelido, ne fanno una creatura molto esotica a queste latitudini. Mentre trattavano con il governo etiope, i Barnhoorn si stavano liberando delle serre impiantate negli anni Novanta attorno al lago Naivasha, in Kenya. Alcune organizzazioni ambientaliste avevano cominciato a denunciare le conseguenze che l’uso massiccio di sostanze chimiche legato alla floricultura aveva sull’ecosistema locale, mentre la Human Rigths Commission keniota aveva raccolto prove di abusi ai danni dei lavoratori impiegati nelle serre. Ne era nata una campagna di boicottaggio internazionale, che spinse Sher e altre compagnie a levare le tende.

Quasi tutte hanno riaperto i battenti in Etiopia, dove le condizioni offerte agli investitori stranieri sono straordinarie: terre fertilissime a costo zero, nessun dazio sull’importazione dei macchinari e degli altri input di produzione, nessuna tassa sui profitti per i primi 5 anni di attività. Ma se in poco più di 10 anni l’Etiopia si è trasformata nel nuovo Eldorado della floricoltura industriale è soprattutto grazie al costo irrisorio della forza lavoro: il salario medio nelle serre oggi è ancora inferiore ai 30 dollari al mese. Soltanto a Ziway, nel 2004 i pionieri della Sher hanno impiantato 34 capannoni distesi su una superficie complessiva di quasi 600 ettari. I piccoli appezzamenti agricoli locali sono stati sostituiti da un’infinita distesa di serre color bianco sporco, che osservata dalle colline circostanti ha l’aspetto di una propaggine malaticcia del lago. All’interno sono impiegate circa 15mila persone. Di colpo, la floricoltura ha trasformato un sonnolento villaggio di pescatori in una frenetica cittadina in grado di attrarre braccia dalle campagne circostanti.

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È la vigilia di Natale, quando un calesse guidato da 2 ragazzini mi deposita di fronte all’ingresso della Afriflora-Sher Ethiopia. Nonostante sia domenica, l’aria è frenetica. Lungo quello che la popolazione di Ziway ha ribattezzato “viale dei fiori” c’è un via vai continuo di gente che si muove a piedi o in bicicletta. I lavoratori che arrivano da lontano si affollano invece nei rimorchi dei camion. John è appena volato in Olanda per celebrare il Natale con la famiglia, ma prima di partire mi ha fissato un incontro con Kebel, il responsabile locale delle relazioni con il pubblico. Il suo ufficio è nel capannone numero 11, che dista un paio di chilometri dall’ingresso. Approfitto della passeggiata per cominciare a guardarmi intorno. Ogni capannone è presidiato da un paio di guardie armate, che hanno tutta l’aria di non amare i curiosi. Con un po’ di fortuna, riesco a infilarmi nel capannone numero 3. All’interno fa un gran caldo e si respira a fatica, così nessuno degli impiegati – soprattutto giovani donne – indossa le tute e le mascherine necessarie a proteggersi da un ambiente pregno di sostanze chimiche. Fatta eccezione per le addette al taglio degli steli, nessuno porta neppure i guanti. Quando lo raggiungo, Kebel mi spiega che “qui la lotta ai parassiti è condotta con un approccio integrato, che utilizza anche metodi naturali”. Un cartello affisso all’ingresso di ciascuna serra illustra in che anno sono state piantate le rose, che ogni 15 giorni forniscono un nuovo ciclo di boccioli pronti per il mercato. Solo nello stabilimento di Ziway, la Sher produce circa 5milioni di boccioli al giorno, di cui il 95% è già venduto su ordinazione. Nell’impianto d’impacchettamento le lavoratrici dividono le rose in base alla lunghezza dello stelo e le confezionano in mazzi pronti per la spedizione. Il 90% attenderanno qualche ora nelle celle frigorifere prima di essere spedite via aerea ad Aaslmeer, in Olanda, principale centro globale di smistamento. Da lì verranno reindirizzate verso gli altri mercati europei e mondiali.

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L’Olanda rimane infatti leader incontrastata della floricoltura globale. Dalla fornitura di semi, pesticidi e fertilizzanti, fino alla commercializzazione finale del prodotto, sono olandesi le compagnie che governano il settore. Flora Holland gestisce il più grande mercato di fiori al mondo: nel 2017 ne ha venduti per 2,7miliardi di euro. All’asta di Aalsmeer ne girano in media 10milioni di euro al giorno. Stanco delle pesanti esternalità ambientali legate alla tradizionale produzione di fiori, il governo olandese ha tagliato ogni incentivo ai produttori nazionali. Allo stesso tempo però promuove con forza la floricultura nel Sud del mondo. In Etiopia, a esempio, la cooperazione olandese sostiene i produttori e ogni 2 anni organizza l’Hortiflora Expo di Addis (il prossimo sarà a metà marzo). Come spiega una pubblicazione della Cambridge University Press, “gli olandesi stanno costruendo una base produttiva, stabile e di alta qualità, per le loro aste di scambio che dominano il commercio internazionale dei fiori”. Intanto, mentre raccolgono risparmio internazionale (Kkr, tra i più importanti fondi globali d’investimento, ha comprato azioni di Afriflora-Sher Ethiopia per 200milioni di dollari), i Barnhoorn, attraverso complicati stratagemmi contabili, denunciano scarsi profitti in Etiopia pagando così tasse irrisorie.

Tra il materiale utilizzato per l’impacchettamento delle rose prodotte a Ziway scopro il marchio “Fairtrade”, che certifica una produzione conforme ai criteri del commercio equo. Kebel mi spiega che “oltre a quella della Fairtrade Labelling Organisation (Flo), la Sher può vantare la certificazione di Fair Flowers, Fair Plants e di Ethical Trading Initiative”. Come può essere equo un commercio che garantisce enormi profitti pagando la manodopera meno di un dollaro al giorno per lavorare in un ambiente insalubre? A Ziway la Sher ha costruito una scuola e un ospedale, di cui gli impiegati della compagnia e i loro figli possono usufruire gratis. Soprattutto da lavoro a migliaia di persone, pagando un salario che per quanto possa sembrarmi misero qui garantisce la sopravvivenza di un’intera famiglia. Prima dell’arrivo dei Barnhoorn, la porzione di terreno occupata oggi dalle serre sfamava 1200 famiglie di contadini, meno di un decimo di quelle nutrite oggi dalle rose. Etichettarle come “eque” è uno sproposito – indice di una disastrosa deriva del Fairtrade internazionale – ma la gente di Ziway può considerare l’arrivo della Sher almeno un buon affare?

Qui molti sostengono che il lago si stia prosciugando e che a causa dell’inquinamento l’acqua dei pozzi non sia più potabile. Ma se il pescato è sempre più scarso e le tradizionali grigliate offerte ai turisti sono solo un ricordo, la fila di braccianti davanti ai cancelli della Sher testimonia come la floricultura sia un’opportunità valida in Etiopia. Cosa succederà però quando gli investitori stranieri, in cerca di braccia a costo sempre più basso, abbandoneranno Ziway? La terra impregnata dalle sostanze chimiche usate per le rose potrà essere riconvertita agli ortaggi? Domande che non interessano i Barnhoorn e la finanza globale che ha scommesso su di loro.

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