Miracolo a Bhopal – MillenniuM 2/2021

Sulla prima linea del fronte alla pandemia di nuovo coronavirus c’è una comunità dimenticata, formatasi attorno al più grave disastro della storia industriale. Sono i sopravvissuti alla nube tossica di Bhopal, la città dell’India centrale dove nel 1984 una fabbrica di pesticidi statunitense, la Union Carbide, sprigionò nell’aria tonnellate di gas velenoso uccidendo decine di migliaia di persone e compromettendo per sempre la vita di altre centinaia di migliaia, oggi tra le più vulnerabili al Covid19. Una comunità che proprio attraverso l’esperienza maturata affrontando l’eredità tossica di quel disastro ha saputo organizzarsi come poche altre nel contrasto all’avanzata della pandemia.

“I sopravvissuti al disastro di Bhopal versano in condizioni disperate, affetti da cronici problemi all’apparato respiratorio, immunitario, neurologico, riproduttivo e intestinale. Vittime ideali del nuovo coronavirus. Grazie all’assistenza quotidiana che gli garantiamo da oltre un quarto di secolo, il Covid19 ci ha però trovati pronti a reagire. L’intima conoscenza di ciascun paziente e della realtà in cui vive è stata il fondamento della nostra azione di contrasto al contagio”. Bushra Khan è una degli operatori sanitari della Sambhavna clinic, la fondazione che dal 1994 garantisce supporto e cure gratuite ai sopravvissuti di Bhopal. Negli ultimi mesi, la clinica ha messo in piedi un piano d’azione basato su isolamento dei contagiati e assistenza domiciliare. Una rete di operatori in grado di muoversi nelle baraccopoli per testare e tracciare con puntualità l’avanzata del virus, fornire cure e medicine, interfacciare il sistema sanitario governativo. Centinaia di volontari sono stati formati ed equipaggiati per allestire punti igiene e autoprodurre strumenti di protezione (mascherine, guanti, tute e così via), affiggere poster e distribuire materiale informativo, facilitare il rispetto delle norme di sicurezza, distribuire gli aiuti alimentari. Nelle baracche più grandi sono state attrezzate camere d’isolamento per i contagiati, mentre per le abitazioni troppo piccole è stata predisposta una serie di tende ai margini di ciascuna comunità, dove poter effettuare gratis i tamponi o trascorre le eventuali quarantene. Un piano che nonostante le scarse risorse finanziarie ha consentito una drastica riduzione del contagio.

“Il contagio è stato molto basso, ma il tasso di mortalità è comunque oltre 6 volte superiore rispetto al resto della città. Dow Chemical – la compagnia leader della chimica mondiale, che nel 2001 ha acquisito la Union Carbide e nel 2017 si è fusa con DuPont formando un colosso da 130miliardi di dollari, ndr – continua a negare l’eredità tossica del disastro sostenendo che oltre il 90% delle persone esposte al gas avrebbe riportato soltanto danni temporanei. Menzogne che il nuovo coronavirus sta mettendo una volta ancora a nudo. Stiamo facendo del nostro meglio per contrastare la diffusione del Covid19, ma questa gente avrebbe bisogno che venisse finalmente abbattuta la contaminazione in cui vive. Servirebbe una bonifica del suolo e della falda acquifera, una rete fognaria efficiente, condizioni di vita degne e soprattutto la giustizia che gli è sempre stata negata”. Satinath Sarangi – a Bhopal tutti lo chiamano Sathyu – è un attivista impegnato nella causa dei sopravvissuti fin dalla notte del disastro. Ha fondato e dirige la Sambhavna clinic, che oltre a fornire cure gratuite ai sopravvissuti si batte affinché vengano riconosciuti i diritti delle vittime e le responsabilità della Dow Chemical.

La clinica è anche un modello di architettura ambientale ed efficienza energetica, con un giardino in cui si coltivano piante medicinali sufficienti a coprire il 65% del fabbisogno. Convinti che l’assunzione massiccia di antibiotici, analgesici e steroidi contribuisca ad appesantire il “carico tossico” dei sopravvissuti, i medici della Sambhavna vi ricorrono il meno possibile, puntando invece su un trattamento a base di erbe medicinali, medicina ayurveda, terapie yoga e panchakarma. La fondazione è nata grazie alla campagna Bhopal Medical Appeal, lanciata nel 1994 sul quotidiano The Guardian con l’aiuto dello scrittore Indra Sinha (autore di Animal’s People, ndr) e dal fotografo Raghu Rai. Qualche anno dopo è stata realizzata la struttura che oggi ospita la clinica, anche grazie alle donazioni di Greenpeace e dello scrittore Dominique Lapierre (autore di Five Past Midnight in Bhopal, ndr). Sempre sotto l’ombrello del Bhopal Medical Appeal, dal 2007 è attivo un centro dedicato ai figli dei sopravvissuti, bambini che nascono affetti da rachitismo, deformità fisiche, cecità e ritardo mentale: il Chingari Rehabilitation Centre è stato fondato con i 125mila dollari del Goldman Environmental Award vinto da Chapmpadevi Shukla e Rashida Bee, due sopravvissute al disastro che per il loro impegno come attiviste nel 2004 hanno ottenuto il premio meglio noto Nobel alternativo per l’Ambiente.

Le associazioni dei sopravvissuti provano a sopperire alle mancanze del governo, che fin dall’inizio di questo dramma ha preferito proteggere gli investitori stranieri piuttosto che le vittime del disastro. Arrogatosi il diritto a esserne unico rappresentante legale, dopo aver chiesto un risarcimento di 3,3miliardi di dollari, il governo ha accettato 470milioni liquidando ogni responsabilità criminale della Union Carbide. Soltanto il 7% dei sopravvissuti ha ottenuto il riconoscimento dei danni permanenti subiti, mentre il resto ha ricevuto una compensazione di appena 500 dollari. Nonostante le prove dell’utilizzo di tecnologie meno sicure rispetto a quelle installate nelle filiali statunitensi, dei tagli sulle misure e sul personale di sicurezza, non è stata riconosciuta alcuna colpa a Warren Anderson, proprietario e direttore generale della multinazionale statunitense. Nel 2014 è morto ultranovantenne nella sua villa su una spiaggia della Florida.

Le sorti dei sopravvissuti sarebbero affidate al “ministero per la riabilitazione delle vittime della tragedia del gas di Bhopal”, al cui vertice si sono alternati personaggi degni del teatro dell’assurdo. Da gennaio 2019 è tornato in carica Visvash Sarang, un fanatico induista del Bjp (il partito del premier indiano Modi), condannato durante il suo precedente mandato per la malversazione di fondi destinati ai sopravvissuti. Prima di lui, si era reinsediato Arif Aqueel, un politico del Congress (il partito della dinastia Gandhi) noto in città come “il leone di Bhopal”, che gira attorno a questa vicenda da oltre 20 anni con un atteggiamento che ricorda più quello dell’avvoltoio. Alla fine degli anni Novanta, durante il suo primo mandato come ministro, si fece fotografare davanti al sito del disastro mentre beveva l’acqua di falda sostenendo che non fosse contaminata. Denunciato dalle associazioni dei sopravvissuti per l’inoperosità del suo mandato più recente, “il leone” ha reagito ordinando al collega delle Finanze di avviare un’inchiesta sui finanziamenti esteri delle stesse associazioni.

Dalla notte del disastro sono passati oltre 36 anni, ma Hazira Bi ricorda ancora bene. “Fu mio marito a svegliarmi. ‘Chi diavolo si è messo a cucinare peperoncini a quest’ora?’, sbraitava tra un colpo di tosse e l’altro. Quando ho aperto gli occhi, sono stata invasa da un bruciore violento. Respirare era quasi impossibile. Da fuori arrivavano urla disperate. Mi sono affacciata alla porta della nostra baracca e ho visto gente che correva in ogni direzione. In preda al panico ho avvolto il mio ultimogenito in una coperta e ci siamo riversati fuori anche noi. Le strade erano tappezzate di corpi, calpestati dalla folla disorientata. Siamo finiti all’interno di una scuola, dove qualcuno aveva acceso un fuoco. Soltanto lì, dopo essermi sciacquata la faccia, mi sono accorta che mancava uno dei nostri figli. Sono tornata di corsa indietro e l’ho trovato disteso su un carretto. Privo di conoscenza, lo avevano ammassato su una pila di cadaveri”.

Quella dei sopravvissuti è una tragedia ancora in corso. Nessuno ha mai bonificato il sito della Union Carbide, così le sostante tossiche sono percolate nel terreno contaminando la falda acquifera e allargando il numero delle vittime. Secondo le ricerche condotte da Greenpeace e dal Centre for Science and Environment, nelle aree limitrofe alla ex-fabbrica la concentrazione di pesticidi, arsenico, cromo, mercurio e piombo è centinaia di volte superiore ai livelli di guardia. I dati presentati dalla Sambhavna in occasione del World Environmental Day 2019 raccontano come la contaminazione abbia già raggiunto oltre 50 comunità, dove vive quasi un milione di persone. Nel 2004 la Corte Suprema dell’India ha ordinato che le aree colpite siano rifornite con dei tank di acqua potabile. Ma ancora oggi la fornitura è saltuaria e costringe gli abitanti a pompare l’acqua di falda contaminata.

Costruiti durante la “Green Revolution” di fine anni Sessanta, su un terreno vicino al centro della città vecchia che veniva utilizzato per le parate militari, gli impianti della Union Carbide sono ancora in piedi. Un basso muro di cinta, coperto dai graffiti lasciati nel tempo dagli attivisti di mezzo mondo, separa il sito dagli slum molto popolati in mezzo a cui è stato innalzato. A sorvegliare il cancello d’ingresso ci sono un paio di guardie sdraiate su brandine di ferro, che giocano a carte fumando bidi. Per entrare servirebbe un permesso speciale, ma dentro alcuni pastori alla guida dello loro capre approfittano della rigogliosa vegetazione che sta inghiottendo le strutture arrugginite. Tenaci rampicanti hanno scalato l’alta torre di tubi da cui il gas tossico si sprigionò nell’aria, mentre un paio di alberi sono cresciuti accanto al tank rimasto sdraiato su un lato dalla notte in cui esplose stracolmo di pesticidi. Il pavimento di quelli che erano i laboratori è ricoperto da un tappetto di flaconi e polveri tossiche, mentre dalle pareti della sala di controllo pendono sbilenchi i cartelli con le indicazioni di sicurezza. La distesa di terra brulla e polverosa che veniva utilizzata per l’evaporazione solare degli scarti produzione è diventata il campo da cricket dei ragazzini degli slum. Giocano e corrono felici, nonostante l’odore delle sostanze chimiche sia ancora pungente.

Il governo vorrebbe aprire l’area al pubblico, farne una sorta di attrazione turistica. Il progetto degli architetti di Spacematters, un lussuoso studio di Delhi, comprende vetrine espositive, calchi in ferro delle vittime, torri d’avvistamento e gallerie per fare shopping. I lavori dovrebbero cominciare quest’anno. “Il piano del governo – mi dice Sathyu – è seppellire la questione della bonifica sotto una colata di cemento. Continueremo a batterci affinché questo luogo divenga un vero Memoriale. Quando Dow Chemical avrà ottemperato al dovere di decontaminarlo, il sito andrà conservato così com’è. Qualcosa di simile a quanto fatto in Europa con i campi di concentramento nazisti”.