Petali e spine d’Africa – Africa 3/2014

petali-e-spine-dafrica-africa-3-14-1

Meno di dieci anni fa, Ziway -160 chilometri a sud di Addis Abeba- era un piccolo villaggio di pescatori della Rift Valley. Marabù e pellicani passeggiavano tranquilli lungo le sponde del lago vulcanico, il gozzo sempre gonfio degli scarti generosi che gli addetti alla pulizia del pescato disseminavano febbrili. Intorno al lago fiorivano modesti appezzamenti coltivati a ortaggi, che insieme alla pesca garantivano la sussistenza della minuta popolazione locale. Un giorno del 2002, nel villaggio sbarcò un uomo che avrebbe cambiato per sempre le sorti del luogo. John Barnhoorn -figlio del fondatore e attuale direttore della Sher, compagnia olandese leader mondiale del commercio di rose- era venuto a controllare i terreni che il governo etiopico gli offriva per impiantare le sue serre. John è un uomo corpulento e dall’espressione seria. La sua pelle bianchissima e gli occhi di un azzurro gelido ne fanno una creatura molto esotica a queste latitudini. Immagino che quel giorno, mentre saggiava la consistenza del terreno e lanciava il suo sguardo esperto lungo le sponde del lago, la gente di Ziway non riuscisse a staccargli gli occhi di dosso.

Da allora, la coltivazione di fiori in Etiopia è cresciuta così rapidamente –secondo la Ethiopian Horticolture Development Agency, nel 2012 il settore valeva 213milioni di dollari, contro i 12milioni del 2005– da garantire oltre il 10% dei guadagni ottenuti attraverso l’esportazione. Un risultato inferiore solo alle industrie del caffè e del pellame. Il governo etiopico ha offerto condizioni straordinarie per attrarre gli investitori stranieri: terre fertilissime concesse a costo zero; nessun dazio sull’importazione dei macchinari e degli altri beni necessari alla produzione, né sull’esportazione del prodotto finale; nessuna tassa sui profitti per i primi cinque anni di attività. Ma se in meno di dieci anni il Paese si è trasformato nel nuovo Eldorado della floricoltura è soprattutto grazie al costo irrisorio della forza lavoro impiegata nelle serre, il cui salario medio è inferiore ai 30 dollari al mese. Oggi le compagnie del settore sono un centinaio –per due terzi di proprietà straniera, soprattutto olandese e israeliana- e danno lavoro a 184mila persone, di cui il 70% sono donne. Le serre coprono già 12mila ettari, ma agli investitori il governo assicura la disponibilità di una superficie dieci volte superiore. La terra coltivata a fiori cresce al ritmo di 50 ettari al mese.
Soltanto a Ziway, i pionieri della Sher hanno impiantato 34 capannoni distesi su una superficie complessiva di oltre 600 ettari. I piccoli appezzamenti coltivati a ortaggi sono stati così rimpiazzati da un’infinita distesa di serre color bianco sporco, che osservate dalle colline circostanti hanno l’aspetto di una propaggine malaticcia del lago. All’interno sono impiegate oltre 12mila persone. Di colpo, la floricoltura ha trasformato un sonnolento villaggio di pescatori in una frenetica cittadina, in grado di attrarre braccia da tutta le campagne circostanti.

petali-e-spine-dafrica-africa-3-14-2

La mattina del 23 dicembre 2012 un calesse guidato da due ragazzini mi deposita di fronte all’ingresso della Sher Ethiopia. Nonostante sia domenica, l’aria è frenetica. Lungo quello che la popolazione di Ziway ha ribattezzato “viale dei fiori” c’è un via vai continuo di gente che si muove a piedi o in bicicletta. I lavoratori che arrivano da lontano si affollano invece nei rimorchi dei camion. John è appena volato in Olanda per celebrare il Natale con la famiglia, ma prima di partire mi ha fissato un incontro con Kebel, responsabile locale delle relazioni con il pubblico. Il suo ufficio è nel capannone numero 11, che dista un paio di chilometri dall’ingresso. Approfitto della passeggiata per cominciare a guardarmi intorno. Ogni capannone è presidiato da un paio di guardie armate, che hanno tutta l’aria di non amare i curiosi. Con un po’ di fortuna, riesco a infilarmi nel capannone numero 3. All’interno fa un gran caldo e si respira a fatica, così nessuno degli impiegati -soprattutto giovani donne- indossa le tute e le mascherine necessarie a proteggersi da un ambiente pregno di pesticidi e fertilizzanti di origine chimica. Fatta eccezione per le addette al taglio degli steli, nessuno porta neppure i guanti.

Quando finalmente raggiungo il capannone dove mi aspetta Kebel, sono in ritardo di mezzora sull’ora fissata per l’incontro. Mentre cominciamo il nostro giro, mi spiega che qui la lotta ai parassiti è condotta con un approccio “integrato”, che affianca l’utilizzo di antiparassitari naturali a quello di sostanze chimiche. Come illustra un cartello affisso all’ingresso della serra, queste rose sono state piantate nel novembre del 2007. Ogni 15 giorni sono in grado di fornire un nuovo ciclo di boccioli pronti per il mercato. Solo nello stabilimento di Ziway, la Sher produce circa 5milioni di boccioli al giorno, di cui il 95% è già venduto su ordinazione.
Dalla serra passiamo agli impianti d’impacchettamento, dove le lavoratrici dividono le rose in base alla lunghezza dello stelo e le confezionano in mazzi pronti per la spedizione. I pacchi di rose vengono poi sistemati in grandi scatoloni di cartone, che attenderanno qualche ora nelle celle frigorifere prima di essere spediti via aerea ad Amsterdam, principale centro mondiale di smistamento (vedi box). Da lì raggiungeranno gli altri mercati europei, quello americano, indiano, russo e così via.

Con grande stupore sugli involucri usati per avvolgere le rose scopro il marchio “Fairtrade”, che certifica una produzione conforme ai criteri del commercio equo e solidale. Kebel mi racconta che oltre a quella della Fairtrade Labelling Organisation (Flo), la Sher può vantare la certificazione di Fair Flowers, Fair Plants e di Ethical Trading Initiative. Come può essere equo un commercio in cui la manodopera viene pagata meno di un dollaro al giorno per lavorare in un ambiente insalubre? Come può essere solidale un commercio che sottrae terra alla produzione agricola di un Paese colpito da continue carestie per produrre fiori da vendere ai consumatori dei Paesi ricchi? A Ziway, la Sher ha costruito una scuola e un ospedale, di cui gli impiegati della compagnia e i loro figli possono usufruire senza dover pagare un solo birr. Da qualche anno John ha messo su anche una squadra di calcio, che ha un proprio stadio nuovo di zecca e splendide uniformi. “Ancora qualche stagione di rodaggio e saremo pronti a vincere il titolo nazionale”, mi ha raccontato fiducioso quando l’ho incontrato prima della partenza per il Natale olandese. Ma soprattutto la sua compagnia da lavoro a 12mila persone, corrispondendo a ciascuna un salario che per quanto possa sembrarmi misero da queste parti garantisce la sopravvivenza di un’intera famiglia. Prima dell’arrivo della Sher la stessa porzione di terreno occupata dalle serre era sufficiente a sfamare 1200 famiglie di contadini, appena un decimo di quelle nutrite oggi dalle rose. Etichettarle come “eque e solidali” è uno sproposito -indice di una pericolosa deriva del fairtrade internazionale- ma la gente di Ziway può considerare l’arrivo della compagnia di John almeno un buon affare?

Il caso del lago Naivasha, in Kenya, aiuta a trovare una risposta. Buona parte delle compagnie impegnate nella floricoltura in Etiopia, Sher compresa, erano impiantate fino a qualche anno fa sui terreni attorno al lago suddetto. Come accade oggi in Etiopia, gli affari andavano a gonfie vele, consentendo agli investitori stranieri di rimpatriare profitti più che sostanziosi. Nel 2000 però alcune organizzazioni ambientaliste cominciarono a denunciare le conseguenze che l’uso massiccio di sostanze chimiche aveva sull’ecosistema del lago, e la Human Rigths Commission kenyota denunciò alcuni casi di abusi e violenze ai danni dei lavoratori impiegati nelle serre. Ne nacque una campagna di boicottaggio internazionale, che costrinse molte compagnie ha chiudere i battenti. Oggi i pescatori di Ziway si lamentano che il pescato è sempre più scarso, e sostengono che la colpa sia dell’inquinamento del lago. Le tradizionali grigliate offerte ai turisti sono ormai una rarità. Cosa succederà quando gli investitori stranieri, in cerca di nuove terre fertili e di braccia a costo sempre più basso, abbandoneranno Ziway come hanno già fatto con Naivasha? La terra impregnata dai fertilizzanti e dai pesticidi chimici usati per la floricoltura potrà essere riconvertita agli ortaggi? Una domanda che non interessa John: la Sher ha da poco venduto gli impianti di Ziway alla Karuturi, gigante dell’agro-business indiano.

petali-e-spine-dafrica-africa-3-14-3

Business olandese
Nonostante la produzione venga sempre più esternalizzata nel Sud del Mondo, l’Olanda rimane leader assoluto della floricoltura globale. Dalla fornitura degli input di produzione (semi e varietà coltivate, pesticidi, fertilizzanti) alla commercializzazione finale, sono olandesi i capitali e le compagnie che muovono il settore. Flora Holland gestisce il più grande mercato di fiori al mondo: all’asta di Aalsmeer ne vengono venduti in media oltre 10milioni di euro al giorno. Il 90% delle rose prodotte a Ziway e nel resto dell’Etiopia -così come in Kenya, Ecuador e negli altri Paesi del Sud- vengono caricate sui cargo frigo per volare ad Aaslmeer.
Stanco delle esternalità ambientali della floricoltura, in Olanda il governo ha sospeso i sussidi al consumo di gas necessario a riscaldare le serre e aumentato vertiginosamente le tasse sui salari dei lavoratori impiegati nel settore. La tradizionale produzione nazionale di fiori è così crollata del 65% negli ultimi 5 anni. Se a casa propria disincentiva i produttori, nel Sud del mondo però li promuove con forza. In Etiopia, a esempio, la cooperazione olandese è tra gli attori principali dello sviluppo della floricoltura. Tra le varie iniziative, organizza e finanzia ogni anno l’Hortiflora Expo di Addis Abeba, dove si riuniscono gli operatori del settore in Etiopia. Sempre più spesso inoltre, compagnie come la Sher sono attive nel Sud del mondo con progetti noti come “turnkey”: impiantano le serre, mettono in moto e organizzano la produzione, e nel giro di un paio di lustri al massimo rivendono gli impianti a un’altra compagnia. Come spiega lo studio Endogenisation or enclave formation? The development of the Ethiopian cut flower industry, pubblicato nel 2010 dalla Cambridge University Press, “gli olandesi stanno costruendo una base produttiva, stabile e di alta qualità, per le loro aste di scambio che dominano il commercio internazionale dei fiori”.