Sulla pelle delle donne – Nigrizia 11/2013

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Giornalista radiofonica e fondatrice della Association des femmes des médias du Sud Kivu (Afemsk), Chouchou Namegabe è un punto di riferimento per le donne della Repubblica Democratica del Congo (Rdc). Negli ultimi quindici anni, nel corso di un conflitto in cui lo stupro è stato tra le armi di guerra più utilizzate, Namegabe ha raccolto le testimonianze delle vittime e le ha mandate in onda su Radio Maendeleo, promuovendo gruppi d’ascolto in cui le donne potevano parlare delle loro esperienze. Per il suo lavoro contro il femminicidio, con cui ha raggiunto la Corte penale internazionale dell’Aja e il senato degli Stati Uniti, le è stato appena assegnato il premio giornalistico Anna Politkovskaya. L’abbiamo incontrata a Ferrara, in occasione del Festival di Internazionale.

Come hanno denunciato diverse inchieste – su tutte, quella pubblicata nel novembre 2012 dal gruppo di esperti delle Nazioni Unite – il governo rwandese assicura supporto economico e militare ai combattenti del M23 e agli altri gruppi armati anti-governativi che si battono in Kivu. Secondo alcuni analisti molte aree della regione sarebbero sotto il controllo dei governi di Kigali e Kampala. Cosa può dirci a riguardo?
È vero, alcuni gruppi armati anti-governativi appoggiati da Rwanda e Uganda controllano vaste zone del Kivu. Le interferenze nella regione sono diverse e tutte molto forti. Mirano al controllo delle risorse naturali presenti nel sottosuolo: oro, diamanti, coltan, stagno, tantalio, tungsteno. Minerali preziosi per molte industrie globali, in grado di fornire profitti enormi a chi è in grado di controllarne il traffico. Noi congolesi continuiamo a essere vittime di quella che sarebbe meglio definire una “guerra per procura”: dietro all’azione del governo rwandese e dei vari gruppi armati ribelli si nascondono infatti gli interessi degli Stati Uniti, che ne sostengono e finanziano l’operato, preoccupati dagli accordi che il Congo ha siglato con la Cina nel 2008 per lo sfruttamento delle materie prime locali. Proprio per questo, nonostante i rapporti molto chiari dell’Onu sull’operato di Rwanda e Uganda, la comunità internazionale non ha ancora intrapreso azioni concrete: per servire le grandi multinazionali che sfruttano le risorse del Kivu, si continua ad alimentare una guerra che soffoca il popolo congolese da vent’anni. Per sradicare la gente dalla propria terra, è stato usato ogni mezzo. A Radio Maendeleo abbiamo raccolto le testimonianze di donne portate dai soldati nelle foreste, dove venivano stuprate di fronte ai propri figli; i bambini poi venivano uccisi, e le donne costrette a mangiarne le carni. Questi atti disumani non servono a soddisfare gli istinti sessuali delle milizie, ma sono azioni mirate a instaurare terrore e vergogna nei cuori e nelle menti della gente, così da poterla cacciare più facilmente dalla propria terra, per poi impossessarsene.

Joseph Kabila è stato rieletto appena due anni fa alla presidenza del Congo. Come giudica il suo operato? Cos’ha fatto il governo di Kinshasa a livello d’investimenti in infrastrutture – strade, reti elettrica e idrica – per favorire il benessere del Kivu?
Lo Stato è quasi inesistente nel Kivu. Molti villaggi non sono raggiunti né dalla corrente elettrica né dalla rete idrica, mentre le strade sono ostaggio degli eserciti che si combattono. Il primo bisogno della popolazione del Kivu resta comunque il ritorno della pace. Se non c’è pace non ha senso parlare d’investimenti economici nella regione, come fa a esempio la Banca Mondiale. Quello di Kabila è un governo troppo debole, che viene calpestato da tutti perché privo di un esercito che possa farsi rispettare. Quando le Nazioni Unite hanno approvato la risoluzione 2098 (con cui sono state costituite le Brigate di Intervento Offensivo dell’Onu, un’unità che per la prima volta nella storia di una missione di “pace” potrà prendere iniziativa in azioni d’attacco e non solo di difesa, ndr), e Mary Robinson è stata inviata qui nella regione dei Grandi Laghi, le nostre speranze si sono riaccese: finalmente i gruppi armati sarebbe stati spazzati via e la pace ristabilita. Ma tutto questo resta ancora un sogno. Se avessimo di nuovo la pace non avremmo bisogno di aiuti economici. La nostra terra è fertile, il clima eccezionale, i congolesi lavoratori instancabili. Se fossimo liberi di organizzarci potremmo nutrire il mondo intero. Oggi invece dobbiamo assistere all’invasione dei contadini rwandesi, che protetti dalle loro milizie hanno occupato e coltivano le nostre terre.

Afemsk, l’associazione che ha fondato nel 2003, è un elemento di spicco di quella che potremmo chiamare la “società civile” congolese. Ci sono altri soggetti con cui collaborate a un progetto politico comune, oppure ogni organizzazione agisce per conto proprio?
Nel Kivu, le varie organizzazioni della società civile si sono di fatto sostituite allo Stato. Ognuna per se, si occupano di raccogliere fondi per sopperire alle mancanze governative, tentano di provvedere ai bisogni drammatici che decenni di guerra hanno provocato alla popolazione. In alcuni casi si sono create delle sinergie, e soggetti diversi si sono trovati a lavorare fianco a fianco per degli obiettivi comuni. Ma in generale si può dire che la società civile sia molto frammentata. Se lo Stato tornasse a occuparsi del Kivu e dei suoi abitanti, buona parte delle organizzazioni nate in questi anni non avrebbero più ragione di esistere. Oggi la popolazione congolese, che in molti casi non può più coltivare la propria terra, sopravvive grazie agli aiuti umanitari. La fame spinge i più giovani, in alcuni casi ancora soltanto dei bambini, ad arruolarsi nelle milizie anti-governative. Molti contadini congolesi invece, per procurarsi il denaro necessario a sopravvivere sono costretti a lavorare nelle miniere clandestine. Il cibo che viene comprato arriva spesso dal Rwanda, fornito dagli stessi contadini che hanno occupato le terre congolesi. Tutto ciò dimostra come questa sia soprattutto una guerra di occupazione della terra.